Tab Article
"Maradona good, Pelé better, George best", così recitava uno striscione nella natìa Belfast, il giorno del funerale che riunì una città e una nazione divisa da sempre. Sciarpe blu e arancioni, sciarpe biancoverdi, ma soprattutto rosse come il Manchester United, in un bagno di folla che celebrava il primo grande idolo del pallone a lasciarci. È stato il quinto Beatle, vivendo sotto gli occhi di tutti molte vite in una sola: ragazzino terribile vicino ai Busby Babes, poi la coppa dalle grandi orecchie, il declino, gli altri club, la nazionale, e sempre l'alcol a fiumi, le donne, le auto e i soldi sperperati. Figlio di un portuale orangista e di una madre alcolizzata, George scorrazza, imperversa per le vie e i prati di Belfast col pallone legato ai piedi. Ma sarà il Manchester United a scovarlo e a dargli una vera educazione sentimentale. Ricucendo lo strappo generazionale e smitizzando la narrazione bomberistica attorno al più famoso numero 7 di tutti i tempi, Belfast Boy ha soprattutto il merito di esplorare il contesto in cui si srotola come un film la vita di George Best: l'Irlanda del Nord del dopoguerra e dei Troubles, le bombe e le minacce di morte con tanto di cecchino allo stadio, ma anche la pacchia a Marbella in costume e infradito, gli Stati Uniti in cui tiene a battesimo il soccer fra un bicchiere e l'altro, le cifre astronomiche e il carcere, i night e le scommesse, le botte prese e quelle restituite, l'uggia di Edimburgo e gli anni londinesi. Se esiste una lista sterminata di libri a proposito di Best, quasi tutti si concentrano sul campo o sulle note vicende da tombeur des femmes, spesso annegando nella sempreverde nostalgia contro il calcio moderno, ma Best è anche e soprattutto stato il primo dei calciatori fotogenici e metrosexual, attento al look e sempre alla moda, anche quando non lo era più. Accanito lettore di parole crociate con velleità da scrittore di gialli, uno con il cognome e la faccia da attore hollywoodiano che apre i titoli di coda. Insomma, George Best.